«Perché è pericoloso», dissero le autorità americane. Durante il maxi processo, Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno puntarono il dito contro di lui, indicandolo come boss del mandamento di Cinisi. LATITANTE FINO AL 1986. Fino al 1986 fu latitante, poi venne catturato. Negli anni delle grandi stragi di mafia avrebbe rivestito un ruolo non secondario, venendo accusato anche di essere tra i mandante dell'omicidio di Salvo Lima. Sottoposto al 41-bis, nel 1994 disse di volersi lasciar morire in carcere, rifiutando qualsiasi contatto con l'esterno, anche quella visita al mese con i familiari che gli spettava di diritto, per evitare che si potesse pensare che ancora tenesse in mano le redini di Cosa Nostra. Il figlio Gaspare di Maggio è ancora in carcere, l'altro, Giuseppe, è stato ucciso nel 2000, vittima della lupara bianca. Quel compleanno festeggiato con tanto di fuochi d'artificio è stato l'ultimo scandaloso omaggio pubblico a Don Procopio. Il questore ha vietato i funerali pubblici. Le esequie saranno riservate alla famiglia.
Don Procopio era un sopravvissuto. A due tentativi di omicidio nel 1981 e nel 1991, e a un salto dal terzo piano di un istituto di correzione americano. Cercava di fuggire agli agenti del Fbi che lo inseguivano, anche se lui raccontava sempre di essere caduto da un ponteggio, perché negli Stati Uniti c'era andato per lavorare. Qui si racconta fosse stato aiutato dal leggendario giocatore di baseball Joe Di Maggio, marito di Marilyn Monroe e suo cugino secondo una vulgata da lui sempre smentita, perché «Di Maggio era di Isola delle Femmine, io di Cinisi». MEMBRO DELLA BANDA DI AL CAPONE. All'inizio degli Anni 50, era stato membro di ciò che restava della banda di Al Capone. Poi era tornato in Italia, si era sposato, aveva aperto una pompa di benzina a Cinisi e nel 1963 era stato arrestato con l'accusa di essere un mafioso, poi era stato rilasciato 56 giorni dopo. Nel 1970 aveva deciso di tornare negli Usa, che sei anni dopo lo rispedirono in Italia. «Perché ero clandestino», diceva lui.
«LA MAFIA NON ESISTE». Don Procopio, però, ha sempre negato di essere un mafioso. Anzi, fino all'ultimo si è ostinato a ripetere quel ritornello tanto in voga negli anni Ottanta e Novanta secondo cui «la mafia non esiste». Lo disse anche in un'intervista rilasciata a l'Unità nel 1996: «Non ho mai sentito parlare di Cosa nostra se non dai giornali e dalle tv. Certo i morti in questi anni ci sono stati a Palermo e qualcosa per spiegarli ci deve essere, ma di mafia non ho sentito parlare. E poi i pentiti? Sono vigliacchi di personalità». La prima volta in carcere a 19 anni Di Maggio era cresciuto in una famiglia umile, figlio di un pastore, aveva studiato fino alla quarta elementare, poi si era occupato del bestiame del padre. La prima volta in carcere a 19 anni, per un omicidio che lui definiva accidentale. Gli diedero 18 anni, ne scontò la metà, con uno sconto di pena per il matrimonio del principe Umberto e un altro per un'amnistia voluta da Mussolini. «COMUNISTI PEGGIO DEI FASCISTI». Forse anche per questo raccontava a l ' Unità che «all'epoca c'erano i fascisti, ora ci sono i comunisti, ed è peggio».
"Quando lo fermarono mentre era alla guida del suo fuoristrada, a bordo c'era la figlia di sei anni che venne risparmiata - raccontano gli inquirenti - Dopo che i sequestratori lo portarono via, fu proprio la bambina a chiamare la madre e fornire poi indicazioni sull'accaduto attraverso un disegno. Il tutto venne registrato dalle microspie che i Carabinieri avevano installato nel fuoristrada poiché sospettavano il coinvolgimento di Tocco nell'uccisione di Giuseppe Di Maggio, figlio del noto Procopio, già reggente della famiglia mafiosa di Cinisi e storico alleato di Totò Riina". Alla svolta nelle indagini hanno contribuito le recenti dichiarazioni del neo collaboratore di giustizia Antonino Pipitone, uomo d'onore della famiglia mafiosa di Carini, e quelle dei pentiti Gaspare Pulizzi e Francesco Briguglio. Queste dichiarazioni e i conseguenti riscontri eseguiti dai militari dell'Arma hanno consentito di ricostruire il delitto (per il quale furono già condannati in via definitiva Salvatore Lo Piccolo, Sandro Lo Piccolo, Damiano Mazzola e i due collaboratori di giustizia, Pulizzi e Brigulgio) e determinare i ruoli ricoperti dagli attuali destinatari del provvedimento restrittivo.
« Se l'hanno ucciso un motivo ci sarà ». Sono in molti a pensarlo fra sé e sé quel giorno di 34 anni fa a Cinisi, mentre a terra nella piazza principale c'è Salvatore Zangara. È l' 8 ottobre 1983, una sera come tutte le altre: lui, titolare di un laboratorio di analisi e segretario locale del Psi, sta facendo un aperitivo con degli amici prima di rientrare a casa. Poi quella raffica di proiettili sparati da una Renault 5 di passaggio e tutto cambia in un attimo. Non è lui, però, il bersaglio. Nello stesso posto, in quel preciso momento, c'è anche Procopio Di Maggio, storico boss di Cinisi, che passeggia insieme al figlio Giuseppe. È a loro che sono indirizzati quei colpi. Ma si salva, e non sarà neppure l'unica volta. Malgrado i numerosi attentati messi in atto da un altro storico cognome di mafia del paese, quello dei Badalamenti, alleati che aveva tradito per passare dalla parte dei corleonesi, Di Maggio non morirà lungo una strada crivellato di colpi, ma nel suo letto alla veneranda età di 100 anni.