Siamo nel febbraio del '69 e alla tremenda strage di Cielo Drive perpetrata dai seguaci di Charles Manson, quella in cui morirà la compagna di Roman Polanski, Sharon Tate ( Margot Robbie), mancano ancora sei mesi. Fin da questa primissima parte Tarantino fa un gran uso di parentesi e flashback, traducendo la classica struttura a puzzle dei suoi film in sequenze-mosaico, ma portando sempre avanti la storia in modo lineare. Solo che la storia non va avanti davvero. Una volta eretto il suo parco dei divertimenti, e popolato con le due più grandi star viventi, Quentin inizia una lunghissima esplorazione di questo presente alternativo, mai veramente vissuto (all'epoca dei fatti aveva sei anni) ma sempre fantasticato. Si tratta ancora, come ad esempio in Inglourious Basterds, del dominio del cinema sulla storia, perché alle icone d'epoca si sovrappongono nomi e titoli immaginati – film, serie tv, locali notturni, sale cinematografiche, star del piccolo e grande schermo -, facendo lievitare il Creato Tarantiniano a livelli di dettaglio senza precedenti.
Poi è chiaro, dopo quasi trent'anni di carriera continuare a valutare Tarantino come un salvatore eccentrico e cool del cinema statunitense, un po' come sono cool i suoi eroi di C'era una volta… nello sconfiggere l'allegoria fantasiosa della Manson family zombie, è posizione critica molto ammuffita. Tarantino si autocelebra di continuo. È un difetto di presunzione palese. Solo che usciti da questo film ti sembra di aver assaporato il gusto di un cinema primario, basico, profondo. Qualcosa di ancorato follemente alla materia di cui sono fatti i sogni. Infine, una considerazione e un consiglio. Brad Pitt è più in palla di DiCaprio. Cercate di vedere il film in lingua originale e possibilmente, come abbiamo fatto noi (grazie Cineteca di Bologna), proiettato in pellicola. Sostieni mai come in questo momento abbiamo bisogno di te. In queste settimane di pandemia noi giornalisti, se facciamo con coscienza il nostro lavoro, svolgiamo un servizio pubblico. Anche per questo ogni giorno qui a siamo orgogliosi di offrire gratuitamente a tutti i cittadini centinaia di nuovi contenuti: notizie, approfondimenti esclusivi, interviste agli esperti, inchieste, video e tanto altro.
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Tutti conoscono già la lineetta sottile di trama per immergere lo spettatore nel mondo Tarantino. Siamo nel 1969 nei sobborghi di Hollywood. L'attorucolo di serie tv e cinema di genere Rick Dalton (DiCaprio) è parecchio esaurito e nervoso perché seppur giovane teme di essere già agli sgoccioli di una carriera media ma non da star. Al suo fianco la silenziosa e saggia sua controfigura/stuntman (Brad Pitt) sui set, che gli guida l'auto, lo scarrozza ovunque, gli aggiusta pure l'antenna di casa. Dalton abita in una villa di Cielo Drive a Los Angeles. I suoi vicini di casa sono Roman Polanski e Sharon Tate (ma anche Jay Sebring). Chi conosce la storia sa che nell'agosto del 1969 proprio a casa Polanski dovrebbe avvenire un efferato omicidio da parte della Manson family. Appunto, dovrebbe. Questa l'esile struttura che non consente mai un vero e proprio appiglio classico narrativo. Tarantino divaga, devia, apre enormi infinite parentesi sui dettagli privati più infinitesimali e follicolari dei protagonisti.
Quello che gli interessa è dare vita a un mondo nuovo nato dalla sovrapposizione di storia e storie, pavimentare la strada per dove vuole arrivare col suo film. A quel punto sappiamo già cosa accadrà, e da un pezzo, anche perché il giochino per il regista non è nuovo: quello che non sappiamo è come, e con che toni. Un cocktail di registri che per Tarantino sono la sintesi massima del potenziale salvifico del cinema. Altro che cinema che insegna la violenza e devia le menti, come in una battuta fin troppo ovvia negli momenti finali del film. Che tutto questo, questa teoria e questo romanticismo, e questa fede incrollabile e un po' ingenua nei confronti del mezzo che tutti amiamo, bastino a sostenere il suo film - un film che sull'altare di quelle idee sacrifica quasi tutto il resto - è un fatto puramente soggettivo. Io non ne sono affatto convinto.
Un mondo così compiuto e affascinante da riacquistare una paradossale verginità, la stessa appunto di Bastardi senza gloria, quella che azzera le cronache e proietta nel possibile. Ecco perché la natura più intima di C'era una volta… a Hollywood è nell'esplosione dei suoi dettagli, non nello sviluppo della sua sinossi. La sequenza in cui Booth quasi ammazza Bruce Lee in una rissa sul set, i poster filologicamente corretti dei film che Dalton va a girare in Italia, gli estratti delle serie tv che interpreta e poi rivede la sera sul piccolo schermo assieme all'amico Cliff, tutto contribuisce al piacere e alla passione che Tarantino vuole trasferire al pubblico, scegliendo ogni volta l'approccio registico più generoso, lo sguardo più commosso. È sempre stata la natura del suo lavoro, solo che ora non ci sono più i generi e i prototipi della serie B (gli spaghetti western, la blaxploitation, il wuxia, il noir di Hong Kong, eccetera) a mediare il gesto, è il cinema stesso il set del film, quindi l'omaggio acquisisce trasparenza, si cristallizza.