Bisognerà provare, prima o poi, a fare seriamente i conti con la vena zoofila che attraversa potente tutto il cinema di Matteo Garrone: dal malibù di L'imbalsamatore alla pulce di Racconto dei racconti, dai cani di Dogman via via fino al bestiario di Pinocchio, Garrone costruisce universi ibridi e promiscui in cui umani e animali coabitano fianco a fianco, talora si contaminano, talaltra sperimentano tutte le forme di legame possibile (dal dominio allo sfruttamento passando per l'affetto e la complicità). Pinocchio segna, in questa prospettiva, quasi il compimento di un processo: perché a dispetto di quanto è stato scritto dalla maggior parte dei recensori circa la presunta fedeltà di Garrone al testo di Collodi (come se la fedeltà fosse solo una questione di quali episodi mettere e di quali togliere, e non anche di toni, di registri, di atmosfere, di sfumature), in realtà il film – questo, almeno, mi pare di poter dire – rilegge Collodi mescolandolo con il tema ovidiano delle metamorfosi.
Lui era già stato, del resto, prima che interprete e regista del suo Pinocchio, un amico affezionato della marionetta di Collodi, in versione non animata, in La voce della Luna (1990) di Fellini. Ma il punto è un altro: il film di Garrone, nella sua parte più innovativa, mette in luce e focalizza l'attenzione sul segreto desiderio maschile d'essere agente autonomo del processo della nascita, al posto della donna e senza la sua partecipazione. «Sono diventato babbo! » urla Geppetto per le strade del paese, pazzo di felicità per aver realizzato l'antico sogno della gravidanza maschile. Gravidanza metafisica. Non è la freudiana invidia femminile del pene, ma invidia maschile dell'utero. A parte Pinocchio, questo antico sogno il cinema aveva già tentato di illustrarlo, se si pensa al film di Jacques Demy Niente di grave, suo marito è incinto (1973) o a quello di Ivan Reitman Junior (1994); ma Garrone mostra come il sogno sia appunto solo un sogno. Il figlio generato senza donna non è che un burattino, anche se si muove, cammina, corre, mangia e compie monellerie.
Molto fedele al testo di Collodi, il film è un racconto realistico e surreale al contempo che manca di verve. Il punto forte? L'estetica dei personaggi Matteo Garrone ci riporta alle origini del Pinocchio burattino pensato da Carlo Collodi. Attorno a lui, ecco la fata bambina dai capelli turchini in realtà fata millenaria, la lumaca lenta assistente, il giudice vecchio gorilla, i quattro conigli-becchini neri, il Can-barbone Medoro... Dal 19 dicembre al cinema, questa nuova trasposizione di Pinocchio è diversa da quanto visto recentemente. Dimenticate l'umanità giocosa dello sceneggiato tv del 1972 di Luigi Comencini e i colori strepitosi di poesia vivace del film d'animazione del 2012 di Enzo D'Alò. Questo nuovo Pinocchio, distribuito in oltre 600 copie da 01 Distribution, è un racconto realistico e surreale al contempo, con atmosfere un po' livide e un gran lavoro artigianale e artistico alle spalle. Una trasposizione fatta col cuore (Garrone ha iniziato a disegnare Pinocchio già a 6 anni), che manca però di verve e grandi emozioni.
È da questo punto di vista, che il film di Garrone incontra anche i suoi limiti, nel nome d'una fedeltà forse eccessiva al racconto di Collodi. Però le maschere, malgrado tutto, funzionano. Mettono in scena uno spettacolo popolare, una fiaba da povera gente. Non c'era una volta un Re — c'era una volta un pezzo di legno. Tutto è animato, nel regno magico delle monete che crescono sugli alberi. Tutto è animato e ogni creatura animale, dal Gatto (Rocco Papaleo) alla Volpe (Massimo Ceccherini, anche co-sceneggiatore), dalla Lumaca al Grillo Parlante, dal Giudice-scimmia ai Dottori dalla testa di coniglio, offre lo spettacolo della sua miseria e dei suoi sogni. Fiaba sovversiva, Pinocchio, malgrado il finale edificante. Fiaba che esalta la resistenza dell'immaginazione popolare di fronte a un destino di povertà che sembra senza uscita. Qui Garrone, complice la fotografia di Nicolaj Brüel, riesce a rendere conto della fisicità d'un mondo contadino, dove le cose più umili sono preziose, hanno ancora uno spessore, un odore, un valore — dove il freddo penetra nelle ossa, il fuoco brucia, il danaro è merce rara e vige ancora la consuetudine del baratto (una giacca e un panciotto per un abbecedario).
Ritorna alla sua peculiare comicità in Il pap'occhio (1980)... Approfondisci Gigi Proietti Appassionato musicista e cantante fin dalla giovinezza, durante l'università si avvicina al teatro sperimentale. Nel 1970 ottiene un enorme successo nel musical Alleluja, brava allora, la sua carriera è una serie di successi a teatro (A me gli occhi, please), al cinema (Febbre da cavallo) e in televisione (Il maresciallo Rocca) tutti i suoi anni di carriera ha onquistato generazioni di spettatori, contaminando la cultura "alta" e quella "bassa" senza pregiudizi. È anche doppiatore, regista e autore di 2013 ha pubblicato con Rizzoli la sua autobiografia: Tutto sommato qualcosa mi ricordo. 1. 2. Note legali
Tutte le creature che popolano l'universo diegetico mutano e si trasformano: un pezzo di legno diventa un burattino parlante, il Gatto e la Volpe da animali quali erano nel romanzo di Collodi diventano personaggi umani, Pinocchio e Lucignolo su trasformano in ciuchini (e la metamorfosi asinina è una delle sequenze più inquietanti), per non parlare di tutto quel circo di donne-lumaca, di medici-gufi, di giudici-scimmia, di conigli-becchini e di grilli e di tonni parlanti che celebrano la festa dell'ibridazione dei corpi e della confusione delle specie. Collodi va a braccetto con Fedro e Apuleio, oltre che con Basile e con tutta la tradizione vernacolare contadina, all'insegna di una visività realistico-visionaria (altro ibrido assolutamente entusiasmante) che mescola e fonde la memoria delle illustrazioni di Enrico Mazzanti per il primo Pinocchio del 1883 con la lezione dei macchiaioli toscani di fine '800. Che meraviglia. Che godimento per gli occhi. Che capacità di fare di un film un congegno visivo capace di generare un mondo.
I personaggi, anche quelli animali, sono tutti in carne e ossa. E trucco. Poi gli effetti visivi della One of Us e Chromatica hanno dato una spruzzata di fluidità. Pinocchio, in legno e giunture, non è stato creato in motion capture: al piccolo Federico Ielapi è stato applicato uno strato di trucco che lo rende burattino. Il britannico Mark Coulier, truccatore vincitore di due Oscar (per The Iron Lady e Grand Budapest Hotel), ha realizzato tutti gli interventi di trucco prostetico, sulla base dei personaggi disegnati da Pietro Scola Di Mambro, nipote di Ettore Scola. Ielapi, 8 anni e tanta pazienza, è stato sottoposto a quattro ore di trucco tutti i giorni, per tre mesi. " Non è stato facile far sì che il silicone sembrasse legno - ha detto Coulier - e che il trucco non trasfigurasse del tutto Federico, che l'aspetto emotivo non fosse completamente coperto dal make up". Il pubblico di Pinocchio Le avventure del burattino che si fa bambino sono una fiaba morale senza tempo, un romanzo di formazione e una grande storia d'amore tra un padre e un figlio.
Descrizione Biografie Classifiche Una nuova rivisitazione del capolavoro di Collodi «Questo Pinocchio deve tanto a Collodi quanto a Ovidio: sono le metamorfosi la chiave postico-stilistica dell'adattamento di Matteo Garrone, che mette la macchina da presa ad altezza burattino e inquadra come farebbe quel perverso polimorfo che è il bambino». - Federico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano «Una fiaba per tutti, sì, ma con una doppia anima: perché la vicenda del burattino si staglia sulla descrizione di un mondo perduto che è forse il cuore vero del film. ». - Emiliano Morreale, La Repubblica Pinocchio torna al cinema in un nuovo adattamento firmato da Matteo Garrone, con il Premio Oscar Roberto Benigni nei panni di Geppetto e il piccolo Federico Ielapi in quelli del burattino più famoso della storia: un'avventura per tutta la famiglia che riporta sul grande schermo il capolavoro di Collodi e i suoi indimenticabili personaggi, dal Gatto e la Volpe al Grillo parlante, da Mangiafuoco alla Fata dai capelli turchini.
Perché questo ennesimo adattamento cinematografico di una delle favole italiane più note nel mondo è enormemente rispettoso dell'originale, come già era stato Il racconto dei racconti al testo di Gianbattista Basile. Produzione: RAI Cinema, 2020 Distribuzione: Eagle Pictures Durata: 121 min Lingua audio: Italiano (Dolby Digital 5. 1);Italiano (Dolby Digital 2. 0) Lingua sottotitoli: Italiano per non udenti Formato Schermo: 2, 35:1 Area2 Roberto Benigni Attore, sceneggiatore, regista, produttore italiano. Antesignano della scuola di comici toscani, si forma nelle cantine romane e si mette presto in luce per i suoi interventi provocatori in televisione, prima a Televacca e poi, in qualità di falso e ignorante critico cinematografico, a L'Altra domenica di (e con) R. Arbore. Contemporaneamente debutta al cinema con Berlinguer ti voglio bene (1977), film d'esordio di G. Bertolucci, in cui interpreta Sandro Cioni, giovane disadattato di fronte alla crisi delle ideologie. Appare quindi in vari film, fra i quali La luna (1979) di B. Bertolucci e Chiedo asilo (1979) di M. Ferreri, in cui dà vita a un poetico e intenso maestro di scuola elementare, suo primo ruolo non dichiaratamente comico.
A riguardo, azzeccata anche la scelta degli attori nani. Certo, i punti di forza non sono pochi, eppure il film non convince fino in fondo. In primis le varie avventure che il burattino affronta paiono degli episodi a sé stanti, slegati dal continuum della storia. Sono persino ben delineate con dei (seppur splendidi) panorami sulla campagna toscana e pugliese. Questo dettaglio va a inficiare anche la costruzione dei personaggi, della loro psicologia, dei loro intenti. Tutto sembra appena abbozzato, o molto più probabilmente fa affidamento sul fatto che conosciamo già i personaggi, almeno in minima parte: Pinocchio è credulone e lo sappiamo, il gatto e la volpe sono degli impostori, la fata è buona, e così via. Il vuoto creato dai personaggi appena abbozzati viene colmato dal grottesco, su tutti il giudice-scimmia, che condanna gli innocenti e rilascia i colpevoli. Qualche parola va spesa su Benigni. Il suo personaggio è delicato, amorevole e, contrariamente al suo cliché, pacato. Un Benigni diverso, che stupisce e che magistralmente rende l'idea di povertà, di paternità, di cura.